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LA MANO SUL CAPPELLO
HANDICAP E DISABILITA’ NELLA MINORAZIONE VISIVA

Aspetti psicologici della minorazione visiva
di Enrico Negri, psicologo

Il termine handicap deriva dall’inglese e significa "la mano sul cappello": esso veniva utilizzato, nei giochi dei bambini, per indicare una penalizzazione o uno svantaggio da infliggere a un giocatore che aveva commesso un infrazione o che era troppo superiore agli altri giocatori. Il giocatore che aveva subito la penalità doveva continuare la partita partendo, rispetto agli altri giocatori, da una posizione di svantaggio per esempio gareggiando con le mani legate dietro la schiena o concedendo un vantaggio agli altri giocatori. Per i minorati della vista questa metafora è molto efficace: è come se essi fossero costretti a giocare sempre con gli occhi bendati. Ma cosa si intende, da un punto di vista scientifico per handicap e qual è il suo rapporto con il concetto di disabilità?

Cominciamo col ridefinire il termine handicap: le definizioni sono fondamentali nella scienza per adempiere a quello che è il suo ruolo più importante, consentire la comunicazione intersoggettiva dei risultati che la scienza progressivamente raggiunge. A tal fine sono stati elaborati, sotto l’egida dell’OMS, alcuni sistemi internazionali di classificazione: tra questi si possono ricordare l’ICD-10 e la Classificazione internazionale delle menomazioni, delle disabilità e degli svantaggi esistenziali. Funzione di queste classificazioni è far sì che nelle e tra le diverse parti del mondo, quando si parla di una cosa — malattie, sindromi particolari, patologie varie — si intenda la stessa cosa.

Che ciò non avvenga, o avvenga con molta difficoltà, è dimostrato da un esempio di casa nostra: nel 1985 il Ministero della Pubblica Istruzione dell’epoca, senatrice F. Falcucci, emanava una circolare, per la cronaca la 250, in cui si parlava dell’handicap in modo del tutto diverso, addirittura capovolgendo i rapporti di causa-effetto rispetto a quanto chiaramente spiegato nella Classificazione Internazionale pubblicata nel 1981. Eppure il ministro Falcucci poteva, a ragione, essere definito un esperto del problema, visto che se ne era occupato ampiamente da più di 10 anni! Evidentemente la trasmissione di informazioni tra gli "esperti" del Ministero della Sanità e del Ministero della Pubblica Istruzione non esisteva.

L’handicap secondo la Classificazione dell’OMS, è un effetto, non una causa come viene per lo più considerata nel linguaggio comune. È l’effetto indiretto e mediato di una menomazione che produce una disabilità: in altre parole, la disabilità che consegue a e caratterizza una particolare menomazione, viene modulata socialmente in modo più o meno rispondente alle necessità indotte dalla disabilità e ciò produce l’handicap.

Questo significa che l’handicap è un sensibile indicatore di attenzione sociale, di sviluppo tecnologico e civile di una società. Alcuni paradossi mi consentiranno di dimostrare questa tesi. Non c’è dubbio che la persona che abbia subito una lesione spinale e, in conseguenza di ciò, sia obbligata a muoversi su una sedia a rotelle sia nella nostra società una persona in condizioni di handicap.

Il motivo sta nel fatto che le città, i paesi, le strade, gli edifici e le attività che vi si possono svolgere sono pensati e realizzati da gente che cammina normalmente e per gente che cammina normalmente. Se fossero progettati da motulesi e realizzati per motulesi sarebbero molto diversi: e i motulesi non sarebbero handicappati perché le condizioni non sarebbero tali da svantaggiare nessuno. Sarebbe come abitare tutti sul pianeta "Palla", un pianeta inventato al tempo del mitico Carosello da una casa costruttrice di elettrodomestici dove tutti gli abitanti erano di forma sferica, senza gambe e si muovevano su ruote. Nella realtà è ciò che avviene quando si incontrano in una partita di pallacanestro due squadre di giocatori in carrozzella.

Per le persone cieche la situazione è analoga. Nonostante la forte tradizione tiflologica nell’educazione e nella rieducazione, le città, i paesi, le strade, gli edifici, sono spesso trappole mortali per chi non ci vede o ci vede male, perché sono pensati e realizzati da gente che vede normalmente e per gente che vede normalmente. Così, attività ovvie per i "normali" diventano ostacoli insuperabili per un non vedente. Anche in questo caso, se il mondo fosse abitato solo da ciechi e le città fossero progettate da loro non si potrebbe parlare di handicap e la disabilità non produrrebbe posizioni di svantaggio.

La sofferenza dei minorati della visione deriva fondamentalmente dal confronto con la realtà e con le persone normovedenti; come vedremo successivamente nel capitolo sull’analisi dei casi clinici, il problema non è la minorazione in sé ma quanto il confronto con la realtà dei più fortunati. Questa sofferenza, che si manifesta essenzialmente attraverso il senso di inferiorità e inadeguatezza, è resa ancora più profonda dal mito trainante della nostra cultura ovvero quello dell’uomo forte ed efficiente, dinamico, integro e "perfetto". Così come le persone tendono a considerare più intelligente e appetibile una persona integra ed efficiente, l’invalido tenderà a considerarsi e a percepirsi come più impacciato, goffo e meno appetibile, interessante e richiesto da un punto di vista sociale e delle relazioni interpersonali e sentimentali. A volte la clamorosa e pervicace negazione dei propri problemi e della propria minorazione diventa l’unico strumento di difesa disperata contro lo sgretolamento della propria identità sociale. Nelle nostre società occidentali, infatti, le persone che rappresentano, più fedelmente, i valori e l’immagine della persona vincente, tendono a essere considerate migliori e più capaci nel complesso: questo effetto, che è stato studiato molto soprattutto dafli psicologi sociali, si chiama effetto alone. Molte ricerche hanno dimostrato come la bellezza fisica nelle donne stimolasse negli uomini l’idea che esse fossero anche intelligenti, simpatiche e intraprendenti. In pratica una caratteristica della persona porta con sé, a volte in modo inconsapevole, altri giudizi sulle sue qualità e capacità. L’effetto alone, tuttavia, non è portatore solo di giudizi positivi ma a volte è foriero di pregiudizi negativi verso coloro che non rappresentano a pieno i valori e le caratteristiche della nostra cultura e che, per qualche ragione, sono considerati o appaiono diversi. Non solo gli invalidi sono vittime dell’effetto alone negativo: per esempio gli obesi sono spesso considerati, a torto, più stupidi delle persone magre e questo perché essi non aderiscono, a causa del loro aspetto, al mito della magrezza tanto sbandierato e che tanti problemi psicologici sta creando soprattutto alle giovani generazioni. Molto spesso questi pregiudizi negativi sono condivisi anche dal gruppo di persone che né è vittima e provoca, in esse, sentimenti di inferiorità e inadeguatezza.

Riassumendo, la società occidentale può ostacolare il processo di emancipazione dell’individuo disabile in due modi: in primo luogo trasformando la sua disabilià in uno svantaggio permanente vale a dire in un handicap. In secondo luogo costruendo miti di perfezione ed efficienza che gravano molti individui, non solo disabili, di un pesante senso di inferiorità e di esclusione. In questo ambito la psicologia serve a poco, sarebbe necessaria piuttosto una rivoluzione culturale capace di smontare il mito dell’uomo "americano" che fa per sostituirlo con quello dell’uomo - un indiano forse - che semplicemente esiste, squotendo alla base i pregiudizi e le credenze che lo sostengono e che esso stesso ha prodotto.

"Siamo abituati al fatto che l’uomo legge con gli occhi e parla con la bocca. Solo un grandioso esperimento culturale che dimostra che si può leggere con le dita e parlare con la mano ci rivela tutta la convenzionalità e la mobilità delle forme culturali del comportamento".

Queste parole di Vygotskij (1986) mi sembra possano degnamente concludere queste riflessioni sull’handicap. Le sue intuizioni geniali anticipano le ricerche sulle persone cieche dalla nascita che hanno riacquistato la vista grazie a un’operazione chirurgica. Per loro uno stimolo per noi ovvio come il volto umano è un’assoluta novità, una configurazione di elementi privi di significato. Lo stesso problema incontrano coloro che devono imparare a sentire dopo un impianto cocleare. Posso solo aggiungere, portando all’estremo questa idea, che si impara anche a vedere con gli occhi e a sentire con le orecchie.

IL BAMBINO SUBVEDENTE

Nel bambino con minorazione visiva lo sviluppo psicologico segue un percorso differente da quello del bambino vedente: la mancanza di uno dei canali sensoriali, attraverso i quali si realizzano le esperienze più significative nei primi anni di vita, determinano un ritardo nelle principali fasi evolutive. Generalmente il bambino non vedente arriva più tardi alla consapevolezza di una propria individualità anche perché necessariamente, a causa dell’handicap, la madre deve svolgere con il bambino più a lungo un ruolo di aiuto, sostegno e mediazione con l’ambiente circostante, sostituendosi al figlio nello svolgere quelle azioni che il bambino vedente riesce precocemente a raggiungere. Per esempio come ha evidenziato S. Freiberg (1977), la crisi dell’estraneo determinata dalla capacità di discriminare le figure familiari dalle altre, che normalmente viene raggiunta verso i 7-9 mesi, nel caso del bambino non vedente si verifica intorno ai 16-18 mesi. In questa fase, al momento della separazione dai genitori si manifestano paura e angoscia, reazioni che nel bambino non vedente hanno intensità maggiore che nel vedente. Pertanto anche brevi allontanamenti possono essere vissuti dal bambino in modo gravemente traumatico.

Separazioni precoci tra il bambino ed i suoi familiari, anche se apparentemente il bambino non reagisce in quanto non è ancora in grado di discriminare tra i genitori e gli altri adulti, costituiscono un ulteriore ostacolo nell’evoluzione del rapporto oggettuale nel processo di individuazione di sé, con gravi conseguenze per la salute mentale del bambino stesso. Il bambino in questi casi rimane in uno stato di confusione senza una chiara idea di sé stesso e degli altri. Le frequenti forme di psicosi rilevate nei bambini non vedenti sono dovute il più delle volte a questa distorsione nello sviluppo della relazione con i genitori.

Inoltre, l’assenza della vista che normalmente ha la funzione di integrare i dati afferenti dagli altri canali sensoriali, determina un ritardo nell’acquisizione della rappresentazione di un oggetto come entità globale. Per esempio, è più difficile per un bambino non vedente integrare in un unico oggetto la sensazione tattile proveniente dal corpo di una persona con la sua voce.

D’altra parte il controllo sull’ambiente si attua principalmente attraverso la vista e pertanto un bambino non vedente non può essere in grado di controllare continuativamente a distanza oggetti e persone come fa il bambino vedente.

Anche lo sviluppo delle funzioni motorie è spesso molto ritardato non per una mancanza di potenzialità funzionali ma in quanto il bambino non vedente è inibito nelle sue tendenze esplorative per la minore inclinazione verso la padronanza dell’ambiente, generalmente stimolato dal canale visivo e verso l’autonomia. Ad esempio, la deambulazione autonoma, come ha rilevato S. Fraiberg (1977) tra i primi, avviene con un ritardo di circa 6-8 mesi rispetto al bambino vedente.

Anche nell’acquisizione del linguaggio si rileva un ritardo significativo in presenza di una minorazione visiva. Nello sviluppo di questa funzione, infatti, ricopre un ruolo fondamentale la mediazione dell’adulto che attraverso la gestualità indica al bambino le associazioni tra fonemi e oggetti. In presenza di una minorazione o, peggio, di una cecità completa, questa associazione può essere mediata solo ed esclusivamente attraverso l’esplorazione tattile degli stimoli perdendo l’immediatezza e la globalità della percezione visiva.

Per tutti i genitori di bambini con gravi handicap, al momento della scoperta della minorazione del figlio, si verifica una situazione fortemente traumatica. Il trauma deriva dalla discrepanza tra il bambino "ideale", che hanno costruito come oggetto d’amore durante l’attesa, e il bambino minorato, che la realtà presenta loro. Quest’ultimo costituisce una ferita narcisistica che mette in discussione il loro valore di procreatori e a volte, a un livello più profondo, la validità globale del loro rapporto di coppia. Inoltre, quasi sempre, sviluppano un accentuato sentimento di colpa nei confronti del figlio.

Le reazioni che derivano da queste forti tensioni sono molteplici e di varia natura e possono modificarsi nel tempo. Più reazioni, anche apparentemente contraddittorie possono coesistere nella stessa persona. In alcuni casi la coppia parentale reagisce nello stesso modo rinforzando le modalità difensive messe in atto per tollerare l’angoscia profonda che l’handicap produce: in altri casi madre e padre sviluppano processi emozionali differenti e spesso evidenziano scarse capacità di comprensione reciproca, di sostegno e di solidarietà all’interno della coppia (Winnicott, 1974).

Nel caso di bambini nati a termine apparentemente sani, la diagnosi di cecità congenita, intervenendo qualche mese dopo la nascita e modificando l’immagine del bambino, rischia di distorcere il rapporto che i genitori hanno iniziato con lui. La reazione più frequente che si rileva nella letteratura clinica, nella fase diagnostica (comune a molti gravi handicap) è costituita dal bisogno di negare la minorazione, con la conseguente ricerca, a volte maniacale, di elementi che lo disconfermino, divenedo spesso in alcuni casi la modalità prevalente in cui i genitori reagiscono alla minorazione del figlio. Questo comportamento favorito dall’intervallo particolarmente ampio che intercorre quasi sempre tra la formulazione dell’ipotesi e la successiva conferma della diagnosi di cecità, fa sì che il genitore possa coltivare la speranza che la diagnosi ipotizzata venga smentita anche ricorrendo alla consultazione di specialisti diversi in campo medico. Ciò persiste nella maggioranza dei casi anche dopo l’accertamento diagnostico concretizzandosi nella ricerca di superspecialisti o di interventi miracolosi (pranoterapisti o guaritori) e diviene il veicolo principale attraverso il quale si esprime la non accettazione da parte dei genitori della cecità del figlio. Si tratta di un meccanismo difensivo che si instaura quando il problema suscita una angoscia tale che l’individuo è incapace di tollerarla: il genitore cerca percorsi attraverso i quali impegnarsi attivamente nel continuo tentativo di opporsi al dato negato alla coscienza. L’efficienza e l’impegno nel cercare specialisti o altre soluzioni, se da un lato sottolineano il sopravvivere della speranza di superare la cecità, dall’altra offrono anche una possibilità di sfogo alle tensioni interne e danno al genitore l’illusione di poter sfuggire all’impotenza di fronte all’handicap irreversibile.

Questi atteggiamenti, che inizialmente sono inevitabili, risultano nel tempo, molto negativi per il bambino minorato in quanto il genitore completamente orientato alla ricerca di soluzioni che eliminino l’handicap non si misura concretamente con la realtà del figlio, non ne rileva i bisogni e non si impegna a sufficienza nel trovare delle soluzioni adattive che assicurino un adeguato sviluppo del figlio.

Questi atteggiamenti dei genitori spesso finiscono per provocare nei figli sentimenti e vissuti di esclusione e rifiuto da parte della famiglia. Il bambino si sente una specie di oggetto di studio, interessante quasi esclusivamente da un punto di vista medico e scientifico; i genitori arrivano a lodarlo e incoraggiarlo solo quando è cooperativo e fa dei progressi, che spesso sono solo la proiezione dei loro desideri. Il bambino, continuamente in movimento tra cliniche, specialisti, medici e guaritori si sente trattato come un portatore di problemi da risolvere e, nel contempo, vede negata la sua vita affettiva ed emotiva. Puntando l’attenzione esclusivamente sulla sua minorazione egli non può che sentirsi inadeguato e poco interessante avvertendo, nel profondo, la sensazione di aver deluso le aspettative dei genitori e della famiglia. Anche in età adulta le persone con minorazione spesso si trascinano dietro vissuti di inadeguatezza, di sfiducia e disistima.

In altri casi i genitori possono sviluppare una particolare relazione con il bambino caratterizzata da iperprotezione e tendenza a limitarlo nel conseguimento dell’autonomia; questi genitori tendono a mantenere il bambino in uno stato di immaturità trattandolo in modo inadeguato alle sue esigenze di crescita e facendogli richieste inferiori alle sue potenzialità. Questa ultima tendenza dei genitori è in parte deterrninata dal comportamento del bambino non vedente che, come è stato precedentemente detto, ha una minore inclinazione verso la padronanza dell’ambiente e verso l’autonomia e presenta spesso una accentuata idiosincrasia per tutto ciò che è nuovo.

Infine, dopo la fase di negazione del problema, molte coppie genitoriali, ma soprattutto la madre, incapaci di accettare e rielaborare l’handicap del figlio sviluppano atteggiamenti e vissuti depressivi. Questa situazione emotiva dei genitori può essere molto rischiosa per il bambino: la madre poco attiva e stimolante a causa della depressione, di fronte ad un bambino che per la sua minorazione si presenta generalmente poco espressivo ed in particolare incapace di suscitare le prime comunicazioni ed i primi scambi spontanei che avvengono nei primi mesi prevalentemente con lo sguardo, diviene ancora più inefficiente. Soprattutto tenendo conto di questo dato è stato messo a punto dalla Hampstead Clinic di Londra, circa 25 anni fa, un particolare tipo di intervento che è costituito da sedute psicoterapeutiche con la mamma e il bambino finalizzate a sostenere l’interesse della madre nei confronti del figlio, ad aiutarla a comprenderlo e ad utilizzare in modo costruttivo e stimolante per il bambino le risorse concrete dell’ambiente.

L’ELABORAZIONE DELLA PROPRIA CONDIZIONE: ASPETI AFFETTIVO-EMOTIVI NELL’ADULTO SUBVEDENTE

Una delle sfide più importanti che l’ipovedente e il non vedente adulto deve affrontare è quella della elaborazione dei vissuti relativi alla propria invalidità e l’accettazione della propria condizione. Per quanto concerne l’impatto emotivo con i problemi della cecità Hollins (1989) fa notare come esso vari considerevolmente in relazione all’età in cui insorge la cecità stessa. Nel caso dei ciechi dalla nascita o di quelle persone divenute cieche in età precocissima, non si può dire che esse abbiano sperimentato una vera e propria perdita di una loro capacità o funzione poiché in loro non c’è mai stata alcuna esperienza o non è conservata alcuna memoria di un mondo visto con gli occhi. Essi sanno che la funzione visiva esiste, che la maggior parte delle persone ne fruisce e che il non possesso di questa facoltà crea loro non pochi problemi. Ciò nonostante non hanno un termine di paragone con cui confrontare la loro particolare esperienza del mondo e proprio per questo non esperimentano la sensazione di essere stati privati o di aver perso qualche cosa, poiché questo "qualche cosa" non è mai stato posseduto, né direttamente conosciuto.

I soggetti che hanno fruito della vista solo per pochi anni durante l’infanzia ed hanno ormai raggiunto l’età adulta, generalmente rimpiangono il periodo di vita in cui vedevano e tutti i vantaggi che ciò loro comportava, tuttavia si tratta di un sentimento non più intenso, stemperato dagli anni e che diminuisce con il progressivo affievolirsi della memoria visiva (Berger, Olley, Oswald, 1962) e, nella maggior parte dei casi, non incide negativamente sulla personalità del soggetto e sul suo adattamento sociale.

Molto diversa la reazione alla cecità di chi ha fruito per molto tempo della vista. In queste persone soprattutto se adulte, la reazione emozionale è intensa e intensamente dolorosa. Essa è anche legata al tipo di atteggiamento che la persona aveva nei confronti della cecità quando era vedente. Così se i sentimenti erano di pietà o di disprezzo, questi medesimi sentimenti verranno ora rivolti verso il soggetto stesso, favorendo un atteggiamento depressivo di autosvalutazione. Se i sentimenti erano invece positivi, di stima e comprensione, sarà favorito il superamento della fase depressiva e l’accettazione della propria condizione. Al di là di ciò, comunque, la perdita della vista costituisce un trauma gravissimo che cambia completamente il modo di percepire l’ambiente esterno e le strategie di adattamento del soggetto e da luogo, per questo, a una sequenza determinata di comportamenti emotivi di cui è stata osservata una certa costanza.

La reazione immediata è molto simile sia a livello del vissuto soggettivo che del comportamento a quella del lutto. A livello più profondo essa può essere sentita addirittura come una perdita di identità poiché il cambiamento che essa richiede per quanto concerne lo stile di vita e la personalità, e comportamentale, è così grande da stravolgere l’immagine che il soggetto ha di sé. Per certi aspetti la persona che diventa cieca comincia una nuova vita; deve rinunciare a una serie di abitudini percettive e comportamentali e al bagaglio di conoscenze da esse ricevuto; deve inoltre rassegnarsi alla perdita di tutte le piacevoli esperienze estetiche legate alla vista e, in generale, a gran parte delle consuetudini che caratterizzavano il suo rapporto con l’ambiente circostante. Nel contempo si trova nella necessità di iniziare un nuovo e faticoso processo di apprendimento e di esperienza di un mondo che gli appare sotto un nuovo aspetto fatto di suoni, contatti, odori e sapori che egli deve organizzare in strutture spaziali che vanno riprogettate e ricostruite con nuovi materiali e riferimenti esperienziali diversi dalle consuete informazioni visive. Il buon esito di tale processo di cambiamento è legato alla capacità dell’individuo di integrare passato e presente, salvaguardando l’unità della sua persona pur accettando e promuovendo l’inevitabile cambiamento. In questo modo l’essere vedente o non vedente, potranno venire intesi come diversi attributi di un unico io, integrabili entrambi nella storia di un medesimo cammino esistenziale. Questo modo di risolvere il lutto permette all’individuo di recuperare interesse per il futuro senza negare e rimuovere il passato.

Una cattiva soluzione dell’elaborazione del lutto porterà, invece, a una mancata integrazione del sé vedente con quello non vedente e a creare una situazione di perenne conflitto interiore caratterizzata da atteggiamenti di rimpianto per un’identità perduta e idealizzata e di pietà, autocommiserazione e rifiuto per quella attuale spesso svalutata poichè non vissuta cme fonte di nuove e valide possibilità esistenziali. La dimensione della possibilità progettuale è attribuita solo al passato e ciò da luogo a una progressiva sfiducia nel futuro e a una diminuita attitudine ad elaborare piani e progetti.

Secondo Hollins (1989) nel periodo di depressione che segue alla perdita della vista, si possono distinguere ancora due ulteriori fasi; lo shock iniziale, che può durare da alcuni giorni ad alcune settimane, a cui fa seguito il periodo di depressione vero e proprio, durante il quale il soggetto prende atto del carattere definitivo ed irreversibile della perdita della vista. Nel primo periodo viene messo in atto un comportamento di negazione del problema che è tipico delle fasi iniziali di alcuni gravi disturbi cronici. il soggetto consulta, in modo "frenetico", specialisti alla ricerca di una disconferma della diagnosi di irreversibilità e di un farmaco, una terapia o un intervento dall’effetto miracoloso. Nel secondo periodo l’accettazione della cecità si verifica prima a livello cognitivo; l’individuo sa di essere cieco ma non lo accetta emotivamente; infine, nell’ultima fase, l’individuo sa e accetta, anche dal punto di vista emotivo, di essere cieco. Alla buona riuscita di quest’ultima fase, l’accettazione emotiva, contribuisce grandemente l’atteggiamento della famiglia e delle persone a cui la persona è affezionata e che costituiscono, per lui, un riferimento e una guida. L’accettazione sia cognitiva che emotiva della cecità deve infatti avvenire anche da parte di queste ultime e solo questa doppia accettazione, che coinvolge il soggetto e gli altri intorno a lui, renderà più facile ed agevole il superamento della depressione e dei conseguenti atteggiamenti di autosvalutazione e di ritiro sociale.

Il comportamento ideale da parte di amici e parenti consiste in un atteggiamento di accettazione della persona diventua cieca e di tutti i cambiamenti che ciò comporta. In questo caso essi riusciranno a vincere, o quantomeno a contenere, l’angoscia che la cecità della persona cara suscita in loro evitando quei comportamenti che di tale angoscia sono sintomi come il distacco emotivo e affettivo, un comportamento iperprotettivo e soffocante, associato spesso a un profondo quanto immotivato senso di colpa.

Un altro fattore di rischio per la salute mentale, frequentemente associato a molte patologie visive a lenta ma progressiva degenerazione, è la cosiddetta sindrome della spada di Damocle. La persona vive in un continuo stato d’ansia e di preoccupazione per la propria salute ma l’angoscia maggiore è dovuta all’idea che, prima o poi, il residuo visivo si affievolirà fino a rendere la persona completamente cieca. Queste persone sono costrette a vivere con questo destino annunciato ma non databile con precisione: spesso esse si svegliano la mattina e cominciano a testare la propria condizione, a cercare sintomi di peggioramento e cercando, in tutti i modi, di rendere più prevedibile il loro destino. In realtà questi test mattutini spesso contribuiscono a gettare la persona nello sconforto e nella depressione; anche un minimo e insignificante appannamento è interpretato come il segnale che la propria sorte si sta compiendo. Quando la persona diventa cieca inizia la fase di elaborazione del lutto per la perdita della vista che spesso si associa a forti vissuti di tipo depressivo. Rispetto a coloro che hanno perso la vista in modo immediato, per esempio in seguito a un trauma, le persone che hanno subito una riduzione progressiva della propria acuità visiva hanno generalmente un decorso più favorevole e un’accettazione più rapida sia a livello cognitivo che emotivo: l’elaborazione della propria condizione è migliore e la fase depressiva più breve. Per queste persone il vero calvario, da un punto di vista psicologico, è il momento in cui inizia il lento ma inesorabile peggioramento della propria efficienza percettiva.

Un’altra condizione molto invalidante per il soggetto minorato della visione è un atteggiamento eccessivamente ansioso, iper-protettivo e soffocante dell’ambiente sociale. Questo atteggiamento può, in alcuni casi, provocare un ritardo nello sviluppo delle capacità cognitive, nell’acquisizione dell’autonomia personale e forte senso di dipendenza dalle figure genitoriali e di accadimento. Spesso questi problemi sono indotti dalle famiglie stesse che finiscono per costruire un legame di forte dipendenza con il figlio, ostacolandone, in definitiva, il processo di crescita, di maturazione psicologica e affettiva, di sviluppo delle facoltà intellettive e di quel percorso di emancipazione cognitiva e psicologica che Jung ha chiamato individuazione. È purtroppo frequente nella mia esperienza clinica e dall’analisi della letteratura incontrare casi di isolamento sociale, di grave ritardo nell’acquisizione di elementari competenze relative all’igiene personale e all’autonomia nel mangiare. Inoltre, questi ragazzi vivono in una condizione di costante dipendenza psicologica arrivando a non tollerare il distacco o la lontananza dai genitori. L’ansia per tutto ciò che è nuovo, l’incapacità di trovare una collocazione soddisfacente nel mondo del lavoro, nelle relazioni sociali e sentimentali e una propria stabilità emotiva rappresentano le sintomatologie più frequenti. L’atteggiamento dei genitori è, a sua volta, strumentale e collusivo: spesso dipende da un profondo bisogno di espiare alla colpa di aver generato un figlio con degli svantaggi o dal bisogno, soprattutto delle madri, di sedare i propri sentimenti depressivi trovando, nell’accudimento del figlio, una nuova ragione di vita. In pratica, in queste famiglie problematiche in cui non sono ben distinti gli spazi di autonomia e crescita personale, la malattia viene utilizzata, in modo inconsapevole, per continuare a mantenere un rapporto di dipendenza adducendo, come pretesto, le effettive difficoltà del ragazzo/a. La persona disabile diventa il garante dell’equilibrio interno alla famiglia, equilibrio che può essere preservato solo a patto che egli rimanga in una condizione di dipendenza sia psicologica che materiale dalla (teoria del paziente designato, Bateson).

A volte il rifiuto della propria condizione di minorazione può portare a sviluppare sentimenti di disistima e di scarsa autoefficacia dovuti al complesso di inferiorità (Adler) ovvero a quel vissuto pervasivo e radicato di essere inferiore in vari ambiti della vita sociale (professionale, delle relazioni sentimentali, delle relazioni amicali…). Secondo Adler il complesso di inferiorità si differenzia dal sentimento di inferiorità in quanto coinvolge tutta la percezione e il senso di identità della persona. Mentre il sentimento di inferiorità è il sano riconoscimento di una propria incapacità dedotto dall’analisi di realtà, il complesso di inferiorità è la credenza irrazionale di essere, in ragione delle proprie incapacità, meno appetibile e attraente da un punto di vista sociale. Il complesso di inferiorità si accompagna spesso a un rifiuto totale della propria condizione di invalido, alla negazione dei vissuti emotivi che a essa si accompagnano e a un risentimento verso le disabilità in generale. Questo atteggiamento è sovente malcelato dietro una facciata di integrazione, attivismo, dinamismo e operatività sociale e lavorativa.

Il complesso di inferiorità comporta, inoltre, la tendenza a sperimentare la realtà come scarsamente controllabile dall’individuo: la persona con minorazione visiva, rispetto ai normodotati, tende ad avere un locus of control prevalentemente esterno ovvero si sente incapace di determinare attivamente e autonomamente il propri futuro. In pratica i disabili visivi tendono, in misura maggiore rispetto alla popolazione normale, a percepirsi come poco in grado di portare a termine i propri obiettivi di vita e di realizzare i propri progetti. Nei casi più gravi il senso di sfiducia in sé stessi è talmente radicato che anche i successi che la persona ottiene vengono attribuiti alle condizioni favorevoli esterne, a eventi accidentali e fortuiti, alla fortuna, all’aiuto degli altri e così via.

In una ricerca dove sono stati messi a confronto bambini vedenti e bambini ciechi rispetto ai giudizi che essi esprimevano in relazione a varie situazioni di vita quotidiana (Galati, 1992) è emerso come, di fronte a situazioni frustranti, i bambini ciechi tendessero a provare sentimenti di tristezza mentre i bambini normodotati tendevano, più frequentemente, a provare sentimenti di rabbia. In pratica i bambini ciechi si percepivano come profondamente dipendenti da ciò che accade e da ciò che la realtà delle cose loro riserva e quindi accettavano le frustrazioni nell’unico modo per loro possibile, ovvero con la delusione e la tristezza. I bambini normodotati si vivevano invece come interpreti attivi della realtà e, di fronte a situazioni frustranti, provavano rabbia perché le cose non erano andate come loro volevano e si attendevano. Riassumendo, i bambini normodotati avevano un atteggiamento nei confronti della vita più attivo e volitivo mentre i bambini ciechi avevano un atteggiamento più passivo e rinunciatario.

Se confrontiamo, infine, all’interno di uno stesso campione di soggetti con minorazione visiva la variabile relativa al sesso, scopriamo come la minorazione visiva appare essere un fattore di rischio per la salute mentale soprattutto per le donne. In una ricerca su pazienti affetti da retinite pigmentosa (Lavanco, Pino 1996) è stato verificato che il campione delle donne mostrava, rispetto a quello maschile, una maggior presenza di ansia sociale (paura di essere rifiutati, di essere crititicati,) e di instabilità emotiva (incapacità di tollerare l’ansia, la frustrazione e incapacità di sopportare lo stress). Questo dato è piuttosto sorprendente e di difficile interpretazione. Tuttavia è possibile che la minorazione visiva incida più profondamente sul senso di identità delle donne che fanno più fatica a ricostruirsi, una volta persa la vista, un ruolo sociale positivo e interessante. Il campione femminile è risultato soffrire, in misura maggiore rispetto ai maschi, di insonnia e di depressione e avere una minore integrazione sociale.

 

L’APPROCCIO PSICOSOMATICO

È frequente, nello studio di molte affezioni organiche, la domanda circa la possibilità di un’origine psicologica o, quantomeno, di un’incidenza significativa dei fattori psicologici nella determinazione di quelli organici o somatici. All’interno dell’approccio psicosomatico, i primi tentativi di ricerca hanno cercato di individuare profili di personalità che fossero specifici per determinate malattie organiche. Il risultato è stato quello di una proliferazione di tipi psicologici chiamati in causa nella eziopatogenesi della malattia. Tuttavia, quest’ambito di ricerca non ha dato alcun risultato nel campo delle minorazioni visive.

Un altro criterio ha cercato di correlare eventi psicosociali stressanti e malattia. La malattia organica è tuttavia un’evento complesso che è difficile spiegare con modelli di causalità lineare. Inoltre, per ciò che riguarda le patologie visive conclamate, è sempre risultato più efficace, nella spiegazione dell’eziologia, il modello medico, visto che è stata trovata un’origine genetica, ereditaria e traumatica per quasi tutti i quadri sintomatologici.

Esiste, tuttavia, un caso, clamoroso nella manifestazione, di origine psicologica di un sintomo organico: si tratta della cosiddetta cecità isterica. Questo sintomo è riportato da alcuni pazienti che affermavano di aver perso completamente la funzionalità dell’apparato percettivo visivo. L’isteria è caratterizzata da una clamorosa e angosciata simulazione di una sofferenza fisica che in realtà è l’espressione di un conflitto e di un disagio personale che l’individuo non riesce a esprimere e a comunicare in modo più maturo e naturale. Come tutta la sintomatologia isterica anche la cecità era il risultato di una somatizzazione di profondi conflitti personali interni all’individuo. Il termine corretto per questo tipo di sintomatologia è, infatti, quello di conversione isterica: la persona sofferente converte le sue dinamiche dolorose e conflittuali simulando una sintomatologia fisica che esprime il dolore che egli prova. La cecità isterica è quindi una sensazione soggettiva che non ha alcuna corrispondenza a livello fisiopatologico, ma che affonda le sue radici nei conflitti interni, nelle frustrazioni e nell’insoddisfazione della persona. Come tutti i sintomi isterici anche la cecità "guarisce" quando si interviene sul problema psicologico profondo che l’ha prodotta.

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